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Paola De Simone

Più che una reinvenzione, un vertiginoso, titanico contrappunto costruito intorno allo Stabat Mater di Pergolesi e alla trascrizione autografa fattane in forma di Mottetto e in lingua tedesca dal grande Bach. Un contrappunto difficilissimo, quanto “sconcertante” nel senso più puro del termine, in grado di saldare quanto evidenziare elementi lessicali e stilistici disparati, se non di segno addirittura opposto, sfidando attraverso il fuoco di una modalità compositiva bipolare, ossia centrifuga e centripeta al contempo, i diversi equilibri timbrici, tonali, testuali (latino, tedesco e latino volgarizzato medievale), metrici (ferma restando la scansione trocaica), vocali e di uno stile proiettato dal Barocco al Novecento. Il tutto, entro un triplice piano prospettico: la Scuola napoletana, l’alta tradizione germanica e i linguaggi della contemporaneità. Praticamente, nelle premesse quanto nel concreto stadio performativo “eroicamente” diretto dal sempre bravo Maurizio Agostini (sotto, nella foto di Luciano Romano), lo Stabat Mater da Giovanni Sebastiano a Giovanni Battista composto da Roberto De Simone per il San Carlo è risultato pari ad un triplo salto mortale tanto che, inizialmente in doppio appuntamento la scorsa primavera per la Settimana Santa, era stato rinviato appunto dopo l’estate per insufficienza di prove, quindi il pomeriggio dello scorso 16 settembre eseguito in unica data con dedica al piccolo siriano Aylan Kurdi (tuttavia la pur prevista lettura della lirica sulle vittime di Hiroshima non c’è stata) e in prima assoluta in presenza dell’autore registrando uno straordinario successo, come pochi altri lavori dei nostri giorni.

In partitura, dunque, un complesso lavoro di contaminazioni sugli originali del Settecento che, sulla matrice melodica e rispettando i numeri dello “Stabat” del nostro Pergolesi, cui è stato giusto aggiunto al centro un originalissimo Intermezzo strumentale efficacemente realizzato dal sax soprano, 3 fisarmoniche più marimba e vibrafono, ha attraversato la trascrizione conservata presso la Staatsbibliothek di Berlino (BWV 1083), un Miserere in aggancio alla formula latina del Salmo 51 ed alcune pagine dal Clavicembalo ben temperato (Preludi I.1, I.4, I.6, II.1 e Fughe I.1, I.2) sempre di Bach per restituire qualcosa di totalmente nuovo, con un organico dall’azzardo assoluto: sei fisarmoniche (Ivano Battiston, Luca Colantonio, Mario Stefano Pietrodarchi, Giancarlo Palena, Giuseppe Loiero, Giuseppe Gualtieri ma senza l’inizialmente annunciata Giuliana Soscia), pianoforte e fortepiano (Mario Nappi), un fenomenale quartetto di colore per vere voci Gospel (Cheryl Porter, Martin Denise Elessa e, con ancora due cambiamenti, Sergio Dos Santos e Keel Watson), Coro misto, Coro di voci bianche (ben curato da Stefania Rinaldi) e gruppo strumentale non meno particolare formato da 2 corni, 2 trombe, 2 tromboni, un clarinetto/cornetta, un sax soprano, una viola da gamba, batteria, celesta, marimba e vibrafono.

L’elevato virtuosismo compositivo, in sostanza, non riguardava soltanto la pur già delicata elaborazione contrappuntistica e melodica dei materiali in oggetto, bensì ogni altro elemento linguistico e di stile in essa confluita, a partire dalla continua dissimulazione stilistica, melodica, armonica e dal lavoro sui tre linguaggi del testo divisi fra il tedesco d’apertura con il Salmo 51 di Bach dall’incipit Tilge, Höchster, meine Sünden, staccato in via sublimata dalle voci bianche sulle trombe con sordina e marimba, quindi accostato al latino del successivo, primo numero dello Stabat pergolesiano per Coro misto e tre fisarmoniche su una Fuga bachiana mentre, con il numero 7 (Vidit Mate) si risaliva direttamente alla sfera linguistica dei tempi di Jacopone.

«Un Bach che scopre Pergolesi» aveva commentato il Maestro De Simone parlando in fase di intervista della sua creazione per il San Carlo. Ma ci sarebbe da aggiungere “un Ventunesimo secolo che li riscopre entrambi” recando tuttavia con sé, come in una Sinfonia di Mahler, tracce di memoria sonora mutuata ad esempio dal lamento di Ascanio dalla commedia musicale Lo frate ‘nnamorato di Pergolesi, dal più noto ritmo della Carmen di Bizet, dal Coro ditirambico dell’Otello verdiano, da modalità neoclassiche stravinskiane o dalla tradizione Gospel, e non solo, di matrice americana.

Al termine dell’efficacissima chiusa a doppia forchetta con il crescendo del Coro e lo spegnersi dell’immensa architettura sul delicato decrescendo delle voci bianche, lunghi e scroscianti gli applausi per il Maestro Roberto De Simone che, dal palco di I fila, è stato invitato a salire al proscenio (in apertura, nella foto di Luciano Romano) per accogliere gli ulteriori consensi e il bis della doppia fuga bitematica con l’intero organico in campo e i due testi in sovrapposizione, al pari dei diversi autori, ad emblematico sigillo per il finale.

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