Teatro sold out, in programma l’incanto romantico di un doppio Ciajkovskij (Sinfonie Quarta e Sesta), Orchestra tecnicamente in buona forma e, sul podio, uno dei massimi interpreti del Ventesimo secolo: Zubin Mehta, quasi ottant’anni, tutto a memoria e una sensibilità rara quanto ben salda nel rigore di metro, forma e di uno stile da mozzare il fiato (foto in alto di Francesco Squeglia e, sotto, di Luciano Romano). Dunque grande inaugurazione della nuova Stagione Sinfonica per il San Carlo entro un chiaro itinerario di rilancio così come sostenuto, oltre che in concreto attraverso la felicità dell’esordio, già dalle premesse di un altisonante titolo quale “The Golden Stage 20XV.XVI”, quindi dalle scelte e dagli ospiti chiamati a darvi forma. E un buon segnale è stato anche il ritorno, dopo un’intera stagione di contrasti e di comprensibili assenze, del sindaco-presidente del cdi della Fondazione, Luigi de Magistris, nel suo palco centrale della fila seconda.
Quanto alle intenzioni musicali sulle partiture in disamina e al relativo lavoro messo a segno sull’organico sancarliano (ottima la disposizione degli archi con i primi violini e i secondi divisi nelle ali esterne con le sezioni dei violoncelli e delle viole al loro interno) dal grande Maestro indiano. Il suo Ciajkovskij? Chiarissimo, sin dall’esatta fanfara dei fiati che, nelle prime sei misure della Quarta, scolpiscono il celebre tema del Fato. Ossia, equilibrio assoluto dei livelli sonori e un Romanticismo della più nobile tempra, lucido nei tracciati formali, mai carico di ridondanze dinamiche o timbriche ma in costante tensione espressiva, dosatissimo nelle chiuse fraseologiche quanto attento a lasciare emergere i dialoghi e i timbri puri. Il che ha brillantemente funzionato nel caso dell’ottima risposta di prime parti come il flautista Bernard Labiausse o il clarinettista Sisto Lino D’Onofrio, ma non per il ruolo fondamentale, soprattutto nei due movimenti iniziali, del primo fagotto (Maddalena Gubert) fortunatamente in campo solo per la prima delle due Sinfonie.
Relativamente alle sezioni, si premiano gli ottoni tutti, il netto miglioramento di primi e secondi violini, nonché il controcanto in filigrana nel “Moderato” e il bel tema slavo nell’”Andantino” dipanati dai violoncelli sotto la guida di Luca Signorini. Nel complesso, una lettura non solo in linea con una percezione della musica da sempre in Mehta altamente rituale ma, stando a quanto scritto dallo stesso compositore russo all’epoca della stesura dell’op. 36, paragonabile ad una “confessione musicale dell’anima”. Confessione che, con la successiva Sesta Sinfonia, ossia la “Patetica”, è giunta in sala con la forza di una dichiarazione d’amore che ha stretto per un’intera serata, in un solo respiro, podio, Orchestra e, oltre i presenti in Teatro, la stessa città. Dell’op. 74 è d’obbligo citare almeno il primo fagotto ospite, il giovanissimo Raffaele Giannotti, per la bellezza e il dominio del suono, quindi il folgorante lavoro di Mehta nella costruzione dell'acme in crescendo interno al primo movimento o l’elegante soavità del valzer nel tempo successivo.
Al termine, dopo lunghi minuti fra applausi entusiastici e ritmati sia da parte del pubblico che dell’Orchestra, sembrava che il Maestro fosse sul punto di dire qualcosa verso la platea. E invece, voltatosi d'improvviso, ha fatto alzare le prime parti e poi l’intero organico, come a consegnare il testimone del successo direttamente nelle mani dei musicisti cui non a caso ha voluto, come dichiarato alla stampa nei giorni precedenti, devolvere il proprio cachet della serata per dare inizio a un fondo di pregiati strumenti.
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