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Paola De Simone

Arriva al proscenio in sedia a rotelle, decrepito e capelli bianchissimi scarmigliati, vibrando di un'invidia che lo spinge ad urlare sdentato, fra gli orchestrali in attesa, il suo Prologo beffardo sull’antinomia dei destini di Mozart e del proprio. Forzando storia e invenzione, entro ed oltre la quarta parete. Luca Barbareschi (a lato e sotto, nelle foto di Franceso Squeglia) riesce benissimo – con l’unico dettaglio antipatico di un copione che non molla mai neanche quando entra nella trama e interagisce a dialogo con gli altri attori – nel restituire, nell’Amadeus in forma semiscenica per due sere al San Carlo Opera Festival e in terza battuta al Ravello Festival di Stefano Valanzuolo, il Salieri scolpito al negativo da Peter Shaffer nel solco di Puškin (Mozart e Salieri) e, da lì, finito in folgorante pellicola con Milos Forman. È odioso, gretto e ricolo, sarcastico e irriverente, a tratti addirittura comico nella fantozziana sovraeccitazione al contatto con la moglie del compositore rivale, Constanze.

Ed è così che, intorno a lui, cresce una lunga pièce giocata fra teatro di parola e cammei musicali mozartiani, assemblati e diretti dall’ottimo John Axelrod (anche al pianoforte per il momento migliore dell’intero spettacolo) nell’occasione alla guida dell’Orchestra del San Carlo. Un teatro di parola che verte in sostanza sullo sberleffo e sul gran baccano, a partire dal rumoroso ingresso che fa la coppia dei Mozart (rispettivamente interpretati da Francesco Bonomo e Dajana Roncione) dal fondo della sala, interagendo con i vari spettatori secondo una formula fin troppo logora, infilandosi tra le poltrone, battibeccando con una certa isteria fra ilarità e sconcezze varie.

In verità, un Mozart di simil pasta, “virtuoso della stecca”, poco si addice a quanto la sua musica e l’imponenza storico-architettonica del Teatro San Carlo ricordano e impongono. Diciamo che si fa un po’ fatica a far corrispondere, pur considerando il suo vivacissimo spirito epistolare, quel che la recitazione “leggera” racconta e il registro di stile che le sue note, altissime, invece trasmettono attraverso l’intelligente lavoro analitico e la sensibilità musicale di Axelrod.

In orchestra si lodano, in particolare, le prime parti Bernard Labiausse, Domenico Sarcina e Fabrizio Fabrizi mentre, delle voci soliste, si resta perplessi della resa ad oggi caprina di un soprano (Marie-Pierre Roy) senz’altro in futuro perfettibile vantando colori di spiccata inclinazione mozartiana, nonché di un tenore (Alexander Kaimbacher) che poco respira. Meglio i registri più scuri (Eva Vogel e Thomas Tatzl) e buona la prova del Coro (preparato da Marco Faelli nel Requiem che in ampia appendice sonora chiude lo spettacolo là dove Mozart si è spento, dunque fermandosi al Lacrimosa) con vette di grande interesse soprattutto nella sezione maschile.

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