Torna a danzare, Vincenzo Capezzuto (nel video e, sotto, nella foto di Gonzalo Sanguinetti) artista salernitano fra i più talentuosi della Scuola e poi del Corpo di Ballo del Teatro San Carlo, oggi trentacinquenne e free lance in giro per il mondo ma con residenza a Bologna. E lo fa portando come protagonista in tournée internazionale, dopo un’anteprima al Teatro di Casalmaggiore (Cremona), in première il prossimo 14 Agosto a Santander (Spagna) nell' Anfiteatro del Centro Botin, quindi in Germania e in prima italiana per la Sagra Musicale Umbra nel bellissimo Teatro di Bevagna il 15 settembre, dando voce e forma allo Stabat Mater | Vivaldi Project, sulle coreografie create in esclusiva e ad hoc dal grande Mauro Bigonzetti. Bigonzetti che ha detto sì al progetto per almeno tre motivi principali: per l’idea di contaminazione “quasi folle” – sottolinea il maestro – dove tutti linguaggi della scena si mescolano con raffinatezza e delicatezza; per la musica antica, che è una mia grande passione e che spesso utilizzo per le mie creazioni. Infine, ma sicuramente non meno importante, per il rapporto di stima che mi lega a Vincenzo Capezzuto: è un artista giovane, ma è come se lo conoscessi da secoli. Un artista con talenti diversi, quale è Vincenzo, non ha eguali per un coreografo, perché il lavoro diventa stimolante, si aprono nuovi orizzonti, nuove possibilità creative ed espressive alle volte assolutamente inaspettate.
E così nasce un Vivaldi dalla duplice metamorfosi, canora e coreutica, che vede finalmente unite in sinergica simbiosi le due arti di Vincenzo Capezzuto: la prima, della danza; la seconda, del canto naturale, scoperta solo di recente ma già in vetta nel circuito concertistico e discografico grazie alla scommessa di Christina Pluhar, liutista, arpista straordinaria e direttrice artistica dell’ensemble “L’Arpeggiata”. Una voce, quella di Vincenzo, naturale, color del miele, che sfida e quasi “danza” con semplicità genuina fra stili, registri e timbri diversissimi, tesi fra le meraviglie del primo Barocco e il disincanto della nostra contemporaneità, fra echi popolari antichi e la tradizione “colta” dei decenni aurei del divino canto dei castrati. Lo aveva già attestato la sua recente sfida “overcross” messa a segno passando dal sopranile Lamento della Ninfa di Ottavio Rinuccini, sulle note d’incanto firmate Monteverdi, alle canzoni “cult” di Mina, dalle monodie seicentesche di Barbara Strozzi ai canti del folklore napoletano e veneziano, cercando e creando un filo sottile fra la nobile matrice di quei suoni remoti e la tinta suadente, ad esempio, di un moderno sax ma, soprattutto, reinventando nuove relazioni e suggestioni fra testo e partitura. Ed è la stessa cifra, chiara nei rinvii all’umanissima “Mater dolorosa” jacoponiana e alle tinte di un canto dal sapore quasi lucano quanto esplicita negli agganci più moderni fra pentagramma e gestualità simbolica, parimenti riconoscibile nel suo nuovo progetto targato “Soqquadro Italiano”. Una formula, quest’ultima, nata nell’anno 2011 in tandem con Claudio Borgianni per rileggere la produzione artistica, musicale e teatrale a cavallo tra il XVI e XVII secolo entro il confronto-interazione fra i diversi linguaggi artistici. Ecco perché il loro repertorio musicale spazia dalla musica antica al jazz, dalle tradizionali al pop. D’altra parte, Soqquadro significa scompiglio… «È infatti un modo per rileggere il Cinque e il Seicento musical-teatrale – spiega l’artista – sovvertendone in formule di contaminazione le regole di stile e di genere». Quanto allo “Stabat” di Vivaldi, spiegano entrambi gli autori: «È una sorta di Teatro musicale in cui danza, canto, recitazione e musica si mescolano organicamente e con naturalezza. La musica di Vivaldi è davvero straordinaria: è, oggi come ieri, talmente vivida che, anche se la si scompone, la si riscrive, la si riduce in frammenti, la si “ri-suona” elettronicamente, non perde affatto riconoscibilità, né la sua insostituibile teatralità. Questi, in definitiva, sono i mezzi che abbiamo scelto di usare per raccontare questa Madre, in un’ottica indubbiamente più spirituale che religiosa» (Vincenzo Capezzuto nello Stabat Mater, sotto, foto di Giuseppe Porisini ).
Alle spalle della produzione c’è, ovviamente, la particolarissima storia di Vincenzo. Una storia che ha inizio a Napoli, vent’anni fa, quando ancora adolescente fu scelto fra i migliori allievi della Scuola di Ballo del Lirico dalla direttrice Anna Razzi per Tracce di luci nell’aria di Joseph Fontano, in locandina per i più giovani. Poi nel 1997, a diciassette anni, il diploma e, a breve, il salto in stagione che gli avrebbe assegnato il suo primo ruolo da solista nel donizettiano Te voglio bene assaje di Roberto De Simone e Luciano Cannito. Poi, l’ingresso a tempo indeterminato nella Compagnia di Balletto del San Carlo eccellendo in Bournonville come in Petit, in Balanchine come in Forsythe, collaborando con grandissime personalità artistiche quali Roberto De Simone, Rudolf Nureyev. A seguire, il coraggio di lasciare quel contratto sicuro per il salto nella libera professione, entrando in Compagnie quali l’Aterballetto di Mauro Bigonzetti, l’English National Ballet, la MMcompany di Michele Merola e il Ballet Argentino di Julio Bocca, o partecipando ai galà della scaligera Alessandra Ferri.
Quanto al doppio percorso in bilico fra il corpo e la voce, la danza e la sua nuova forma di canto, lo stesso Vincenzo Capezzuto ci ha sempre raccontato: «Da piccolo ero molto affascinato dalla musica. Era probabilmente qualcosa di intimo e viscerale. Riuscivo ad esternare le emozioni che la musica mi provocava attraverso la danza e il canto. Era come se fosse il linguaggio, per me, più naturale per comunicare, quasi più della parola. Decisi quindi istintivamente di approfondire, per prima cosa, la danza ben sapendo che il rigore, la conoscenza profonda del mio corpo attraverso la musica, mi avrebbe permesso con il tempo di prendere coscienza anche della mia voce, potendo poi trasmettere al canto l’esperienza artistica fin lì accumulata. Moltissime persone, in Teatro, mi dicevano intanto che avevo una voce “rara”, “indefinibile”, “naturalmente intonata” e dall’“emissione naturale”. Capivo chiaramente che la natura aveva fatto molto e che bisognava approfondire la conoscenza dello strumento senza troppi artifici, ma con intelligenza e attenzione. Il passaggio dalla danza al canto sarebbe stata un’evoluzione naturale. Oggi? Ritengo che la musica non possa prescindere dalla danza. L’una si rigenera nell’altra, sono complementari e indivisibili». Già negli anni del San Carlo, in realtà, aveva testato l’efficacia di una tale unione, con Barmoon/the cage di Fabrizio Monteverde, probabilmente perché il raffinato coreografo romano lo aveva ascoltato mentre cantava tra i corridoi del Teatro. E, ancora, a Napoli in un’anteprima nell’anno 2000 cantando il Weill di Ute Lemper nel Centro di Pasquale della Monaco, alle Rampe Pizzofalcone. «L’incontro con la Pluhar, – confessa Vincenzo – è stato assolutamente determinante. In quattro anni ne sono nati 4 dischi per la Emi/Virgin Classics, quindi le esibizioni alla Carnegie Hall di New York, alla Wigmore Hall di Londra, al BBCProms di Londra, al Teatro du Chatelet di Parigi e il recente esordio all’Argentina di Roma». Fra le sue produzioni più recenti, segnaliamo Gondola, il music-book della scrittrice americana Donna Leon con cd allegato in cui interpreta le arie da battello arrangiate dal violinista Riccardo Minasi con l’ensemble barocco il “Pomo d’oro” più Cecilia Bartoli special guest, e appunto il quarto disco con “L’Arpeggiata” dal titolo Music for a while, con primo piano sul massimo esponente del Barocco inglese Henry Purcell, nel quale canta al fianco di grandissimi musicisti quali il jazzista Gianluigi Trovesi, il chitarrista Wolfgang Muthspiel, il cornettista barocco Doron Sherwin, il controtenore Philippe Jaroussky.
Un talento con successo in giro per il mondo, dunque, ma con il cuore ancora legato a fil doppio al “suo” palcoscenico partenopeo: «Sarebbe emozionante poter tornare un giorno al Teatro San Carlo di Napoli con Soqquadro Italiano – confessa al termine Vincenzo Capezzuto, lanciando un'idea al nuovo direttore artistico Paolo Pinamonti - e, magari, proprio con lo Stabat Mater vivaldiano».