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  • Paola De Simone

Per il tardo Ottocento di Brahms e Bruckner, quanto per il Barocco händeliano filtrato attraverso il Novecento storico del dodecafonico Schönberg. Oppure, con la bacchetta o senza, come ad esempio nell'Andante della Sinfonia "Romantica" dolcemente plasmato a mani nude. In ogni caso, il suo gesto misurato ma dagli effetti incisivi e dagli affondi poderosi resta impresso come pochi: negli occhi per la precisione degli attacchi e la nobiltà delle linee, nella mente per la lucidità estrema delle architetture formali, nel cuore per l'incanto stupefacente dei colori e dei respiri, fino a toccare agogiche dalla tensione purissima e rarefazioni dinamiche al limite dell'impalpabile, a nostra memoria mai udite, almeno in questi termini, dall'Orchestra del Lirico. E infatti proprio tutti - pubblico e musicisti sul palco - con entusiasmo vivissimo ne applaudono al termine gli esiti stavolta ancor più straordinari sul podio della compagine strumentale del Teatro San Carlo (nelle foto di Luciano Romano) dopo la prima volta che Yukada Sado, in passato allievo prediletto e assistente di Bernstein, nonché di Ozawa e oggi migliore bacchetta giapponese al mondo, nel febbraio 2014 diresse l'Orchestra del San Carlo, ossia quando l'attenzione fu in realtà catalizzata dal singolare fascino violinistico dell'outsider David Garrett, solista per il Concerto brahmsiano in quell'occasione al suo fianco e a complemento dell'Ottava Sinfonia di Dvořák. L'ingresso nella pur disinvolta Ouverture "Accademica" di Brahms assume i contorni vibranti di un'ombra pregiata che concilia marcia e corale, archi ben compatti e legni ispirati. Ed è già da quelle prime battute che ben si comprende quanto la particolare costruzione della Akademische Festouvertüre (Ouverture per una festa accademica) op. 80, nata nell'estate 1880 quale gesto sonoro di ringraziamento per ricambiare la laurea honoris causa in filosofia ricevuta dall'Università di Breslavia nel marzo 1879, quindi conferita al compositore di Amburgo nella cerimonia avvenuta il 4 gennaio dell'anno a seguire, intenda per Sado andare ben oltre il libero taglio rapsodico e l'intreccio quasi divertito dei quattro canti goliardici scelti e innestati. Di qui la pregnanza dei piani timbrico-espressivi sempre ben distinti e avvertibili entro il peculiare dualismo fra il peso delle dense atmosfere brahmsiane e lo smalto delle turcherie ironiche e rilucenti affidate a triangolo, piatti e grancassa. In via analoga notevolissimo è risultato il gioco di specchi ed equilibri dal podio fra gli stilemi del Barocco e la lente deformante del linguaggio musicale di Schönberg cui rinviava il più moderno Concerto per quartetto d’archi e orchestra elaborato sul Concerto grosso op. VI n. 7 di Händel, in parallelo all'articolazione fra il gruppo da camera in funzione solistica - ossia il Quartetto del Teatro San Carlo formato dalle prime parti stabili o a contratto della Fondazione, dunque Cecilia Laca (primo violino), Luigi Buonomo (secondo violino), Antonio Bossone (viola) e Luca Signorini (violoncello) - a dialogo o a contrasto con il resto dell'Orchestra. Del Quartetto, all'acuto, saltavano fuori sonorità nervose, trilli taglienti o, tra viola e violoncello, cavate di buona tempra melodica ma, in ogni caso, di relativa forza motrice a fronte di un'Orchestra dall'evidente marcia in più, particolarmente in ottima forma e perfettamente allineata con l'esatto mix di intelligenza e sensibilità distillate dal direttore originario di Kyoto. Al termine del brano centrale, un bis non richiesto ma gradito al pubblico, tratto dall'unico Quartetto per archi scritto da Verdi (all'epoca proprio per le prime parti del Teatro San Carlo e ad oggi custodito, in partitura autografa, nella Biblioteca del Conservatorio "San Pietro a Majella"), uno Scherzo riprodotto puntando più che sulle congenite fibre teatrali, su velocità e trasparenze alla Mendelssohn.

Infine la Sinfonia "Romantica" di Anton Bruckner, della serata centro assoluto ricostruito da Sado garantendo al contempo tempra e definizione ad ogni parametro e dettaglio entro una comune proiezione d'orizzonte quasi "zen", mirata a legare i quattro movimenti alla luce miracolosa di un unico arco di tensione e respiro, distinguendone e posizionandone ad arte i livelli fra i timbri puri e la massa, i diversi incastri sonori, i ricercati tracciati armonici e il più facile slancio melodico poi rimbalzato in "Star wars", dosando a filo il battito dei timpani e lasciando cantare al meglio viole e violoncelli, esaltando il solo o l'assieme nella sezione dei corni, amalgamando i legni, facendo correre come non mai i violini tutti, creando grandi suggestioni nello Scherzo della caccia, davvero in bel contrasto con il Trio, sfoderando un senso del crescendo folgorante nel Finale con l'ampia quanto tesissima gittata dall'ineffabile all'esplosione del suono d'assieme.

Onore e merito pertanto al direttore Yutaka Sado ma, non minori, le lodi destinate nell'occasione all'Orchestra della Fondazione con saldi puntelli nelle relative prime parti: Giuseppe Carotenuto (per i primi due brani) con Pasquale Murino al concertino e Cecilia Laca (rientrata al suo posto di spalla dopo Schönberg), Giuseppe Navelli (poi Luigi Buonomo), Patrizio Rocchino (quindi Antonio Bossone), Fabio Centurione al violoncello (poi Luca Signorini), Carmine Laino (primo contrabbasso), Bernard Labiausse (primo flauto), il sempre speciale Hernan Garreffa (primo oboe), Sisto Lino D'Onofrio (primo clarinetto), Mauro Russo (primo fagotto), il bravissimo Ricardo Serrano (primo corno), Giuseppe Cascone (prima tromba), Gianluca Camilli (primo trombone), Federico Bruschi (basso tuba) e la linea delle percussioni formata da Barbara Bavecchi, Franco Cardaropoli, Marco Pezzenati, Pasquale Bardaro. A questo punto, ci auguriamo solo che il grande Maestro Sado possa tornare presto al San Carlo.

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