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  • Paola De Simone​ ​​ ​

Un cambio improvviso di parte del programma e la radicale sostituzione dei solisti protagonisti, talvolta, può portare piacevoli sorprese se non risultati addirittura più interessanti. È quanto avvenuto al Teatro San Carlo in occasione dello scorso Sinfonico in data unica (nelle foto di Luciano Romano) per il quale, a causa di un'improvvisa défaillance per motivi familiari, il celebre violinista Maxim Vengerov è stato costretto a disdire il suo appuntamento partenopeo che lo avrebbe visto non solo atteso protagonista del Quinto e ultimo Concerto mozartiano oltre che sul podio della Sinfonia "Jupiter" ma, anche, al fianco di Cecilia Laca, uno dei due violini di spalla dell'Orchestra del Lirico napoletano per varare un'inedita coppia artistica con il Concertone per due violini e orchestra K. 190, sempre di Mozart. Varo e coppia di cui francamente a tutt'oggi - curiosità a parte - ci sfugge il senso a fronte di storie qualitative così diverse quanto distanti fra i due interpreti in campo. Il lato positivo è che, nonostante la rapidità della sostituzione, sia a tener fermo il filo monografico mozartiano per quanto su altra prospettiva strumentale, sia ad accettare al volo l'impegno nonostante l'esiguità delle prove a disposizione, è stato un meraviglioso interprete, il pianista tedesco Alexander Lonquich, assente da lungo tempo da Napoli e dallo stesso San Carlo, tra l'altro tornando questa volta non in recital (l'ultimo, lo abbiamo ricordato in presentazione, fu del 1988) bensì al fianco e alla testa dell'Orchestra della Fondazione - che, tra l'altro, ben ha risposto al suo gesto - con il Concerto in do minore K. 491.

Per quanto già conoscessimo le notevolissime risorse interpretative di Lonquich, gli esiti della sua nuova esecuzione sancarliana sono andati oltre ogni sia pur prevedibile proiezione, restituendo nella misura più alta l'esatta tornitura di un grande capolavoro di svolta sia sul piano strutturale che espressivo. Intanto una riflessione sulla tonalità: quel do minore, paletta armonica tragica per antonomasia, così atipica se vista in parallelo alla genesi positiva e ipercinetica delle coeve Nozze di Figaro, eppure scelta mirata di quella tinta dolorosa e possente ideale - esattamente come l'ha intesa e riprodotta Lonquich - per legare insieme le ombre del mondo di Mozart con l'eroismo titanico di Beethoven (non solo della Quinta ma, in special modo, del Terzo Concerto per pianoforte e orchestra), quanto, al contempo, lo Schubert sia del citato recital da lui tenuto con successo a Napoli trent'anni fa, sia dell'Allegretto (dunque di pari autore e sempre in do minore come a seguire una speciale propensione o a chiudere un cerchio) con il quale il pianista, in omaggio fuori programma con la sua tenera, toccante tristezza, ha voluto concludere la prima metà della serata.

Quanto alle altre peculiarità del K. 491 in ascolto, interessante la singolare posizione del pianoforte sulla destra al proscenio, con i violini primi e secondi divisi nelle rispettive due ali, archi gravi sulla sinistra e viole più fiati al centro per una disposizione ottimale sia per il continuo scatto in piedi del solista impegnato anche a dirigere l'organico, sia per la funzionalità degli equilibri concertanti entro l'insieme. La cifra dell'attacco del Tutti iniziale intanto, così come subito evidenziato dalla lettura di Lonquich, è stata inequivocabilmente beethoveniana. Poi, rapidamente, il direttore si è trasformato in solista sedendosi al pianoforte per cesellare quel primo tema che tanto ci avrebbe detto del suo Mozart. Un Mozart fluido, dinamico ma di smalto e sostanza, quasi teatralmente sospeso nelle linee melodiche più ampie quanto leggero nella tecnica veloce e sempre meravigliosamente valorizzato attraverso il gioco degli accenti e il contrasto, tra le frasi o gli incisi. È dolce e scattante a un tempo, felicissimo nel tocco quanto perfetto nelle intenzioni stilistiche pronte a chiarire la nuova densità delle sezioni di Sviluppo così come la piena interazione fra il Solo e il Tutti, il luminoso virtuosismo delle Cadenze, l'incanto del Larghetto centrale, la crescita emozionale nel Finale attraverso il sorprendente escamotage mozartiano del procedimento variato. Al termine, infatti, una cascata di applausi e consensi, meritatissimi, andati a premiare in Lonquich tanto il solista che il direttore, poi passato al podio per dar forma all'olimpica, grande "Jupiter".

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